Effetti dell’acquisto da una procedura fallimentare di beni immobili oggetto di una convenzione urbanistica stipulata dalla società poi fallita con il Comune concedente con atto notarile del 2007.
L’atto 2007 era integrativo di una precedente convenzione notarile del 2005. La convenzione integrativa 2007 stabiliva l’impegno della concessionaria, nei confronti del Comune, a cedere alcune aree (art. 3), a versare un importo corrispondente al valore di aree non cedute (art. 4), a eseguire direttamente delle opere di urbanizzazione primaria (art. 5), a versare al Comune il controvalore della quota di urbanizzazioni secondarie pertinenti all’intervento (art. 8).
La durata e validità della convenzione era di anni 10. L’iniziale termine di scadenza della convenzione integrativa era dunque nell’anno 2017.
Nel 2014, il Tribunale di Milano aveva dichiarato il fallimento della società richiedente.
Rispetto alla durata pattizia della convenzione, l’art. 30, comma 3-bis, del decreto-legge n. 69/2013 (introdotto dalla legge di conversione n. 98/2013) ha previsto una proroga di tre anni del termine di validità nonché dei termini di inizio e fine lavori “nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31 dicembre 2012”.
Il Comune, con deliberazione della Giunta del 2017, aveva preso atto della proroga di tre anni, ai sensi del citato art. 30 comma 3-bis, dei termini di validità della convenzione urbanistica del 2007, dando altresì atto che tutte le indicazioni e condizioni contenute nel Piano attuativo e nelle relative convenzioni urbanistiche restavano immutate, fatta salva la possibilità del Comune di concertare le variazioni di attuazione delle opere di urbanizzazione in forza della propria programmazione. A seguito, dunque, dell’art. 30, comma 3-bis, del decreto-legge n. 69/2013, il termine di scadenza della convenzione era stato dunque spostato al 2020.
Successivamente, l’art. 10, comma 4-bis, del decreto-legge n. 76/2020, introdotto dalla legge di conversione n. 120/2020, ha stabilito che “Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, formatisi al 31 dicembre 2020, sono prorogati di tre anni. La disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, o degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all’articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98”.
A seguito di tale norma, dunque, il termine di validità della convenzione integrativa sottoscritta dalla società e dal Comune è stato prorogato ex lege di ulteriori tre anni, 2023. Il citato art. 10 comma 4-bis, infatti, prevede espressamente la proroga anche di quelle convenzioni che abbiano usufruito della precedente proroga di cui all’articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge n. 69/2013. E la proroga disposta dall’art. 10, comma 4-bis, del decreto-legge n. 76/2020 è automatica, come lo è quella prevista dall’art. 30, comma 3-bis, del decreto-legge n. 69/2013.
Si tratta, infatti, di proroghe ex lege, che trovano applicazione a prescindere da una specifica istanza di parte. Il TAR Piemonte (Torino), Sezione II, con la sentenza n. 1304/2015, ha confermato – in relazione al predetto art. 30 comma 3-bis – che la “proroga triennale dell’efficacia dei permessi convenzionati opera automaticamente e risulta ammissibile, ed anzi dovuta, anche qualora il termine originario sia già venuto a scadenza”. Il TAR Toscana (Firenze), Sezione III, con la sentenza n. 345/2021, pur riconoscendo la natura automatica della proroga prevista dall’art. 30 comma 3-bis, ha precisato però che, “Ai fini dell’applicazione del citato comma 3 bis, la durata della convenzione e/o il termine di esecuzione dei lavori non devono essere già decorsi al momento dell’entrata in vigore del regime di proroga automatica introdotto dal legislatore; diversamente opinando si avrebbe una non prevista applicazione (retroattiva) della norma legislativa ai rapporti già esauriti e si tratterebbe di rinnovo e non di proroga”.
Poiché il termine della convenzione 2017 è risultato prorogato ex lege sino al 2023, ci si deve chiedere ora se, in caso di acquisto del sopra indicato compendio immobiliare nell’ambito della liquidazione dei beni della fallita, l’acquirente sia o meno subentrato nei diritti e negli obblighi previsti dalla convenzione stessa.
Invero, la stessa convenzione integrativa, all’art. 10, stabiliva che “Il Soggetto Attuatore si impegna a trasferire gli obblighi nascenti dalla presente convenzione in capo ad ogni eventuale successore e avente causa, nei diritti di proprietà o di godimento delle aree e degli edifici ricompresi nel Piano Esecutivo in modo da assicurarne l’osservanza anche da parte di terzi”. Del resto, anche nella consulenza estimativa giudiziaria fallimentare si era dato atto dell’esistenza della convenzione integrativa, quale vincolo/onere giuridico pertinente al compendio immobiliare.
Il trasferimento “ad ogni eventuale successore e avente causa” degli obblighi nascenti dalla convenzione integrativa è espressione del carattere “propter rem” degli obblighi assunti dall’operatore economico che abbia sottoscritto la convenzione. Tale trasferimento, dunque, si verifica a prescindere dalla specifica ed espressa previsione contenuta nella convenzione e, nel nostro caso, anche negli atti della procedura fallimentare.
Il TAR Lazio (Roma), Sezione Seconda Ter, con la sentenza n. 5787/2016, ha chiarito che le obbligazioni in questione hanno natura “ambulatoria” o propter rem dal lato passivo, gravanti, quindi, sugli aventi causa degli originari lottizzanti, “per cui, di norma e salva diversa pattuizione negoziale, l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti.
In sintesi, la natura reale dell’obbligazione riguarda i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l’edificazione e poi i loro aventi causa”.
Dello stesso segno è la sentenza n. 7024/2020 del Consiglio di Stato, Sezione Quarta, che ha ribadito la “natura di obbligazioni propter rem, attribuita alle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche”, condividendo quindi l’indirizzo giurisprudenziale “secondo il quale all’adempimento sono tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono i titoli edilizi nell’ambito della lottizzazione, quelli che realizzano l’edificazione ed i loro aventi causa”.
È fuori di dubbio, pertanto, che l’acquirente del compendio immobiliare dalla procedura fallimentare assuma tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla convenzione integrativa del 2007.
L’acquirente medesimo si avvantaggerebbe poi dei versamenti già effettuati dalla società poi fallita al Comune. La natura “propter rem” della convenzione, infatti, comporta che – in virtù del trasferimento della proprietà dell’area – l’acquirente subentri, nel rapporto con il Comune, esattamente nella stessa posizione in cui si sarebbe trovata la parte venditrice.
Ciò posto, restano da considerare le conseguenze, in capo all’acquirente, dell’eventuale mancata puntuale attuazione della convenzione integrativa e, in particolare, della ripetibilità o meno degli importi già corrisposti all’Ente pubblico in esecuzione della stessa convenzione.
È noto che, in base all’art. 28 della n. 1150/1942 (“Legge urbanistica”), l’approvazione di piani di lottizzazione proposti da privati deve essere accompagnata dalla sottoscrizione di una convenzione, da trascrivere nei registri immobiliari, con la quale l’operatore economico si obbliga a realizzare opere di urbanizzazione da cedere gratuitamente al Comune o, in alternativa, a versare al Comune un importo in denaro pari al loro controvalore. Tale disciplina è espressamente richiamata dall’art. 30, comma 3, della legge n. 457/1978 per i piani di recupero.
Si tratta di una problematica complessa. Innanzitutto, occorre distinguere gli obblighi previsti in una convenzione urbanistica, da quelli imposti da una concessione edilizia (permesso di costruire).
Per quanto concerne quest’ultimi, la giurisprudenza ha ormai chiarito che il privato che abbia rinunciato all’esecuzione dell’intervento edilizio può pretendere la restituzione di tutti i contributi versati. In questa ipotesi, infatti, il contributo di costruzione risulta strettamente correlato alla trasformazione urbanistica e edilizia del territorio e, dunque, al concreto esercizio della facoltà di costruire. Pertanto, il contributo non è dovuto in caso di rinuncia o, comunque, di mancato utilizzo del permesso di costruire, con conseguente obbligo della Pubblica Amministrazione di restituire le somme eventualmente incamerate a tale titolo: “nel caso in cui il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche ai sensi dell’art. 2033 o dell’art. 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione” (così la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione II, n. 4633/2021).
Questo perché, ove non si verifichi l’attività di trasformazione del territorio, il relativo pagamento risulterebbe privo della causa dell’originaria obbligazione di dare.
La giurisprudenza concorda pure nel ritenere che il diritto alla restituzione sorge non soltanto nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche nel caso in cui il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che tanto la quota degli oneri di urbanizzazione, quanto quella relativa al costo di costruzione, sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all’oggetto della costruzione (con la conseguenza che l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata).
Ci si deve chiedere se questi principi possano applicarsi anche nel caso dell’intervenuta stipulazione di una convenzione urbanistica.
In proposito, va osservato che il TAR Lombardia (Milano), Sezione Seconda, con le sentenze n. 1337/2013 e n. 1137/2015, ha negato la possibilità, per il soggetto attuatore, di sottrarsi dall’obbligo di corresponsione del contributo di costruzione mediante atto di rinuncia alla convenzione urbanistica. In particolare, nella sentenza n. 1337/2013, è stato rilevato che la rinuncia alla convenzione urbanistica “costituisce in realtà un vero e proprio atto di recesso dall’accordo contrattuale, peraltro in violazione dell’art. 1372, comma 1°, del codice civile […] e dell’art. 21 sexies della legge 241/1990”. Ne consegue che, una volta negata la possibilità di recesso unilaterale, la constatata perdurante vigenza della convenzione urbanistica (“avente natura sostanzialmente negoziale”) porta ad escludere che il versamento del contributo di costruzione sia divenuto privo di causa: il pagamento trova giustificazione proprio nella vigenza della convenzione e nella conseguente perdurante possibilità per il privato di attuare l’intervento di trasformazione del territorio. L’impossibilità di una rinuncia alla convenzione urbanistica è stata ribadita dal TAR Lombardia, come detto, nella sentenza n. 1137/2015. In questo caso, la possibilità di sottrarsi all’obbligo di realizzazione delle opere a scomputo oneri è stata negata, in quanto era intervenuta la realizzazione delle opere di interesse privato: “importa sottolineare come la disciplina dell’inadempimento sia senza dubbio governata dai ‘principi (più propriamente dalle regole) in materia di obbligazioni e contratti’ (art. 11, comma 2, L. n. 241 del 1990). Cosicché, stante la mancata esecuzione delle prestazioni contrattuali dovute dal lottizzante, era onere di quest’ultimo dare la prova della causa non imputabile […]. Sennonché, il lottizzante non ha controdedotto alcuna cause impeditiva (1218 c.c.) e le ragioni giustificative addotte appaiono del tutto insufficienti ad escluderne la responsabilità”.
Diverso, per il TAR Lombardia, è il caso in cui vi siano: 1) l’assoluta mancata realizzazione di ogni opera prevista dalla convenzione; 2) l’impossibilità per il soggetto attuatore, stante l’intervenuta scadenza dei termini previsti dalla convenzione stessa, di realizzare le opere private di suo interesse.
Con la sentenza n. 596/2018, infatti, sempre il TAR (Milano), Sezione Seconda, ha ritenuto che l’assoluta assenza di attività di trasformazione del territorio e l’impossibile attuazione futura di questa attività non possano far altro che rendere privo di causa l’incameramento del contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e contributo sul costo di costruzione). Quest’ultima sentenza (espressione di un preciso orientamento giurisprudenziale) muove dal presupposto che “il contributo di costruzione non può essere considerato alla stregua di un corrispettivo sinallagmatico correlato al trasferimento al privato del diritto di costruire, corrispettivo da ritenersi comunque dovuto anche se il privato stesso ometta poi di sfruttare il diritto acquisito”. La convenzione urbanistica, in questa prospettiva, non costituisce un’autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di costruzione, derivando quest’ultimo direttamente dalla legge, la quale lo pone in stretta correlazione all’attività di trasformazione del territorio in assenza della quale esso non è comunque dovuto. Per il TAR Lombardia, dunque, la convenzione svolge il ruolo non già di fonte dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso per quanto concerne il quantum ed il quomodo.
Ne consegue che, per la citata sentenza n. 596/2018, una volta escluso che la trasformazione del territorio possa attuarsi, il pagamento del contributo di costruzione diviene privo di causa, quantunque esso sia previsto e disciplinato da una convenzione urbanistica. In questo specifico quadro, si deve escludere che l’esistenza della convenzione possa giustificare il pagamento del contributo di costruzione nonostante l’impossibilità di attuare gli interventi di trasformazione del territorio ivi previsti. E neppure può ritenersi che il Comune possa pretendere di trattenere le somme già versate in ragione dell’avvenuto impiego delle medesime nel finanziamento di attività di pubblico interesse.
Per il TAR Lombardia, infatti, l’art. 2033 cod. civ. non ammette deroghe all’obbligo di restituzione del pagamento indebitamente ricevuto, e ciò neanche quando la fonte dell’obbligazione, in origine esistente, venga meno in un secondo momento; salvo, per il Comune “in buona fede”, il beneficio di non dover corrispondere gli interessi se non a decorrere dal giorno della domanda, e salva anche la possibilità, sempre per il Comune, di ottenere il risarcimento dei danni qualora dimostri che la parte privata abbia tenuto una condotta sleale, ledendo un suo legittimo affidamento.
Pertanto, diversamente dal caso in cui il richiedente abbia inteso sottrarsi volontariamente ad una convenzione urbanistica vigente, nel caso in cui la convenzione sia scaduta e nessuna opera sia stata realizzata, l’Ente pubblico è obbligato alla restituzione delle somme ricevute a titolo di oneri di urbanizzazione.
Va tuttavia dato conto del diverso orientamento giurisprudenziale (espresso in particolare dal Consiglio di Stato), secondo il quale il principio per cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo esercizio dello ius aedificandi non può valere rispetto ai casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un’obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale.
Il Consiglio di Stato, Sezione Quarta, con la sentenza n. 1069/2019, ha affermato, infatti, che gli impegni assunti in sede convenzionale – al contrario di quanto si verifica in caso di rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che ove, in tutto o in parte, l’edificazione non ha luogo, può venire in essere un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio – non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell’operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l’equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni stessi (così pure, poi, la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quarta, n. 6561/2019). La causa della convenzione urbanistica, e cioè l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare, pertanto, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato, sia quelli della Pubblica Amministrazione (cfr. la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quinta, n. 5603/2013).
Questa tesi, in definitiva, individua la convenzione come fonte degli oneri correlati alle opere di urbanizzazione, con la conseguenza che, una volta sottoscritta la convenzione, l’obbligazione di versamento degli oneri concessori è legata alla sorte complessiva o parziale delle prestazioni previste nell’accordo, perdendo quel nesso di indissolubilità con l’effettiva trasformazione del territorio. Secondo questo orientamento, pertanto, il principio generale per cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo esercizio dello ius aedificandi, non vale rispetto a casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisca oggetto di un’obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica (rectius: di una convenzione urbanistica) correlato alla pianificazione territoriale (cfr. Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza n. 6339/2018).
Va detto che la sentenza n. 596/2018 del TAR Lombardia sopra citata, per quanto richiamata da successive, conformi sentenze dello stesso TAR, è stata appellata, e a oggi non è dato conoscere l’esito dell’impugnazione. Peraltro, il Giudice dell’appello è proprio il Consiglio di Stato, del cui (diverso) orientamento si è detto.
In conclusione, in caso di mancata attuazione degli obblighi convenzionali, l’efficacia della convenzione urbanistica comporti il diritto del Comune di trattenere gli importi già versati dall’operatore economico e quello di riscuotere gli importi non ancora versati ma che, in base alla convenzione, avrebbero dovuto essere versati in un secondo tempo (in corso d’opera, etc.): ci si riferisce agli importi previsti nella convenzione per la realizzazione di infrastrutture (“oneri di urbanizzazione”) e come controvalore di aree che il Comune avrebbe dovuto acquistare per tali infrastrutture (“monetizzazioni”).
Viceversa, rispetto agli importi dovuti dal privato al Comune per il “costo di costruzione”, gli stessi non debbono essere corrisposti nel caso in cui non venga realizzato l’intervento, perché costituiscono un accessorio del permesso di costruire (infatti, gli importi a titolo di “costo di costruzione” vanno corrisposti, in genere, dopo il rilascio del permesso di costruire).